In Recensione

Suite francese

Una preziosa eredità ai posteri

“Non dimenticare mai che la guerra finirà e che tutta la parte storica sbiadirà. Cercare di mettere insieme il maggior numero di cose, di argomenti… che possano interessare la gente nel 1952 o nel 2052”, scrive Irène Némirovsky negli appunti su come il suo romanzo avrebbe dovuto essere. Un’opera in 5 volumi, rimasta purtroppo incompleta, ma non per questo meno straordinaria. “Temporale di giugno”, che descrive la tragica fuga dei francesi all’arrivo delle truppe tedesche, e “Dolce”, che invece narra l’occupazione dei tedeschi di un paesino di campagna alle porte della capitale. E poi, i tre capitoli che ne avrebbero dovuto costituire il seguito: Prigionia, Battaglie, La pace.
Un grande progetto, quello della Némirovsky, che ambiva a costruire un nuovo “Guerra e Pace”, un romanzo che avrebbe narrato sì le atrocità della guerra, ma che avrebbe soprattutto “approfondito la vita quotidiana, affettiva, e soprattutto la commedia che è specchio della realtà di tutti i giorni.” Commedia che la scrittrice voleva far trasparire attraverso le contrapposizioni: i personaggi da lei descritti, infatti, fanno parte della borghesia, di cui vengono messi in risalto l’egoismo, le contraddizioni, la vigliaccheria… Una denuncia nascosta, però: ciò che ci troviamo davanti è, infatti, un narratore onniscente che parla attraverso le bocche dei suoi personaggi e vede attraverso i loro occhi, rendendo in questo modo il lettore partecipe di quelle diverse realtà che si trova di fronte.

 Nonostante possa, anche senza gli ultimi tre capitoli in progetto, essere “accettata” la fine di Dolce come conclusione del romanzo, è inevitabile restare con l’amaro in bocca. Leggere i suoi appunti, sapere cosa l’autrice avesse in mente per il seguito, soprattutto sapere che avrebbe potuto esserci un seguito, è molto triste. Iréne, infatti, è stata internata dai tedeschi nel mese di luglio, e ben presto trasferita ad Auschwitz, dove morì pochi mesi dopo. Lo attesta anche la corrispondenza (anche questa inclusa alla fine del romanzo), fra Irène e le case editrici, fra lei e il marito Michel Epstein, e fra il marito e gli editori della moglie, nel vano tentativo di capire dove questa fosse e liberarla. Nel 1942 Irène era una scrittrice già affermata non solo in Francia, ma anche in molti paesi di Europa e il fatto che fosse fuggita dalla Russia bolscevica in cui era nata, avesse rifiutato le sue origini ebraiche e richiesto la naturalizzazione francese nel 1938, faceva ancora sperare che ci fosse per lei la possibilità di mettersi in salvo dalla crudeltà dei tedeschi.

Ma così non fu. E, pochi mesi dopo la sua cattura, la stessa sorte toccò al marito, lasciando così le due figlie di 5 e 8 anni, orfane. I manoscritti della madre erano l’unico ricordo che di lei le rimaneva, l’unica testimonianza della sua scrittura e del suo talento letterario.

In questa tragica storia, la cosa positiva è stata il fatto che Irène, alla fine, è riuscita a lasciare ai posteri una piccola parte del suo grande progetto. È riuscita ancora una volta a stupire, a lasciare il segno, a dimostrare il suo talento. A dar vita a un romanzo che la farà ritornare in vita ogni volta che viene sfogliato.

Colgo l’occasione per segnalare Mirador. Irène Némirovsky Mia madre (Fazi Editore), sua biografia scritta dalla figlia, Élisabeth Gille. La particolarità sta nel fatto che la biografia è scritta in prima persona, così come la figlia immagina, o meglio, sogna, che sua madre sia stata. Io non l’ho ancora letto ma è già parte della mia wishlist.