In Premio Strega

L’isola di Arturo – Elsa Morante

L’isola di Arturo – Elsa Morante
Einaudi Editore

Dopo un’assenza più lunga del solito rieccomi a scrivere sul blog, ancora una volta sul Premio Strega  (grazie al progetto di @stregonerie_spaziostrega a cui vi invito a partecipare): quello vinto da Elsa Morante nel 1957 con la pubblicazione de L’isola di Arturo.

Elsa Morante

Arturo, Procida e la Casa dei guaglioni

L’isola di cui parliamo è Procida, con il suo cielo sempre azzurro e il sole sempre in alto, e Arturo Gerace, che porta il nome di una stella, la più luminosa della costellazione di Boote, è un ragazzino di quattordici anni cresciuto qui, girovagando e fantasticando in questo piccolo mondo.

Non si cura dei vestiti, del suo nutrimento o della sua casa, la Casa dei guaglioni, maestoso castello così chiamato perché il suo ex proprietario, l’Amalfitano, sembrava tenere qui feste e incontri esclusivi in cui nessuna donna era ammessa. E, nell’immaginario di Arturo, è stata proprio la casa a portare via sua madre, morta a diciott’anni durante il suo primo parto.

Suo padre, Wilhelm, il suo eroe, è invece sempre in giro per il mondo – o almeno così il nostro protagonista ci fa credere – per tornare di tanto in tanto senza preavviso, lasciando Arturo vivere nel proprio solitario sogno ad occhi aperti. Sua unica compagnia la sua cagna, Immacolatella, e le cartoline del suo amico Silvestro, soldato che gli ha fatto da balio nei suoi primi anni di vita.

In tale contesto, la sua infanzia e la sua adolescenza si svolgono senza alcuna regola, senza alcun vincolo, se non una sorta di codice morale da lui stesso creato, maturato da quella cultura tratta dai libri che tanto ama leggere.

Nunziatella, Nunz., N. 

Un evento, una persona, arriveranno a stravolgere quell’equilibrio assurdo che era la vita di Arturo nella sua isola: il matrimonio del padre con Nunziatella, una donna quasi coetanea del ragazzo, che distoglierà da lui quelle poche attenzioni fino ad allora ricevute dal padre, andando a disturbare la sua quiete e, in parte, a distruggere quel mito che egli intorno al padre aveva costruito.

I due novelli sposi si sono infatti conosciuti a Napoli, non in un qualche lontano paese esotico in cui Arturo immaginava suo padre imbattersi nelle più coraggiose avventure. Dopo un primo approccio non poi così crudele, egli decide di non rivolgere più la parola alla dolce Nunziatella, né di scrivere il suo nome per intero, finendo per riferirsi a lei come N. o, al massimo, Nunz.

Il mistero delle donne

Arturo è, in realtà, attratto e spaventato allo stesso tempo dal mistero delle donne: ripudiate dall’Amalfitano prima, dal padre poi, egli non sa, non conosce, cosa si celi dietro tutti quei vestiti e quelle sottane, cosa nascondano quelle figure “affaccendate, sfuggenti, che si vergognavano di se stesse, forse perché erano così brutte”.

Tutte le grandi azioni che m’affascinavano sui libri erano compiute da uomini, mai da donne. L’avventura, la guerra e la gloria erano privilegi virili. Le donne, invece, erano l’amore; e nei libri si parlava di persone femminili regali e stupende. Ma io sospettavo che simili donne, e anche quel meraviglioso sentimento dell’amore, fossero soltanto un’invenzione dei libri, non una realtà.

Ma c’è un’eccezione a questo suo disprezzo per il genere femminile, ed è costituito dalla madre, la sua maternità perduta. Egli è infatti convinto che solo lei avrebbe potuto consolarlo, sostenerlo, difenderlo, amarlo. Tutto ciò che suo padre non aveva – e non avrebbe – mai fatto. Ed è quell’amore, quel legame per una madre mai conosciuta e per quell’agognato affetto una delle ragioni per cui Arturo non può lasciare la sua isola.

Poiché mia madre era sotterrata in quel punto, quasi mi pareva che la sua persona fosse prigioniera là […]. Forse per questo, appena, andando in barca, io m’allontanavo un poco sul mare, subito mi prendeva un’amarezza di solitudine, che mi faceva tornare indietro. Era lei che mi richiamava, come le sirene.

L’altra ragione altro non potrebbe essere se non l’attesa del ritorno padre, la speranza che egli sia accompagnato da uno di quei suoi spavaldi amici di cui spesso gli ha parlato, che con lui condividono segreti e avventure, cosa che potrebbe permettere anche a lui, nella sua tenera età, di entrare un po’ di più nel suo mondo, di essergli un po’ più vicino.

Temi e scrittura 

Tanti sono i temi toccati nel romanzo di formazione della Morante: solitudine, mancanza di affetto, amore, misoginia, omosessualità. Attraverso ogni singola tappa della crescita di Arturo, questi emergono uno dopo l’altro, svelando nel protagonista una persona misantropa, egocentrica, sola e che, purtroppo, non avrebbe potuto essere altrimenti. 

La scrittura dell’autrice poi, contribuisce a dare ai pensieri di Arturo una scorrevolezza e una chiarezza che non permettono di ribattere a nulla, che riescono a impietosire e adirare quando serve, e portano il lettore alla consapevolezza dell’importanza di certi sentimenti, di certe tappe della vita: quelle che ad Arturo sono state negate. 

Il finale, in cui l’orgoglio e la rabbia portano Arturo alla decisione di lasciare l’isola, consistono forse con il suo passaggio alla maturità, alla libertà di scegliere e, finalmente, all’indipendenza da quei (falsi) miti che lo tenevano lì segregato.

Trama semplice, emozioni complesse 

In realtà, tante sarebbero le cose da dire su questo romanzo, per la quantità di emozioni che fa provare, di spunti su cui riflettere, e per la complessità che emerge da una storia così semplice in apparenza.

Per non dilungarmi troppo, concludo consigliando vivamente la lettura di questo libro: l’ho trovato molto piacevole, uno di quei libri che riescono a lasciarti qualcosa, anche quando nulla sembra accomunarci con i suoi personaggi; uno di quei libri che o si ama – come nel mio caso – o si odia. A mio parere, infatti, questo romanzo vale in tutti i suoi aspetti – dalla delicatezza dei temi trattati alla maestria con cui l’autrice li affronta (considerando anche il fatto che è una donna a scrivere i pensieri di un uomo misogino), dalla scrittura – che, in un romanzo come questo, fa tanto – alla storia in sé.

Alla prossima,
Ross.