In Cina e Giappone in Libri/ Recensione

Koto: bellezza e tradizione attraverso la penna di Kawabata

Nessuno scrittore occidentale ha la mano leggera come Kawabata” scrive Carlo Cassola nella nota introduttiva a Koto, romanzo scritto nel 1962 e apparso in Italia nel 1968 per Bur Rizzoli.

Trama

Koto, ovvero i giovani amanti dell’antica città imperiale (Koto 古都), narra la storia di due gemelle, Chieko e Naeko, separate dalla nascita.

Chieko, una trovatella, stando a quanto le raccontano gli attuali genitori – che, tra l’altro, non riescono ad accordarsi sul luogo in cui l’hanno trovata – è cresciuta in una famiglia relativamente agiata a Kyōto, con il padre Takichiro è un artigiano che disegna decorazioni per kimono e obi (le cinture dei kimono).

Fra i cedri del monte Kitayama, nella prefettura di Wakayama, vive invece Naeko, la cui vita è sempre stata dedicata al lavoro, un lavoro umile, stancante: quello di ripulire la zona da sterpi ed erbacce.

È qui che Chieko, con il desiderio di vedere i cedri in primavera, si reca e nota per la prima volta Naeko, rimanendo non poco stupita di fronte alla loro somiglianza.

Le due si incontreranno ancora durante il Festival di Gion, dove avranno occasione di parlare, e Naeko le racconterà ciò che sa sulla loro storia.

Nonostante l’amore fraterno che nasce fin dal loro primo incontro, le loro vite sono troppo diverse, troppo distanti, per essere riunite dopo vent’anni di separazione.

I colori delle stagioni e dei tradizionali festival

Ma l’autore Kawabata, in questo breve romanzo di sole 150 pagine, non ci racconta solo questo: la narrazione avviene attraverso il susseguirsi delle stagioni, e con esse le tradizioni, le feste, i fiori, la bellezza del Giappone di un tempo.

Si può ben dire che nella Kyoto fitta di templi e di santuari non passi giorno senza una festa, sia piccola o grande.

Non è primavera se non si vanno a vedere i ciliegi in fiore, non è estate se non si indossa il kimono più bello per partecipare al Gion Matsuri, non inizia l’autunno se non si assiste ai fuochi Daimonji 大文字, non è inverno se il paesaggio non viene coperto di neve leggera.

Ogni capitolo, infatti, ha come titolo un richiamo alle stagioni, alla natura, all’autenticità del luogo: ciò che l’autore ci mostra è il suo profondo legame con ciò che è sia fuori che dentro di sé, col risultato di una prosa poetica, sublime, che immerge il lettore nei paesaggi oltre che nella storia delle due sorelle.

La candidatura al Nobel

Kawabata vince il Premio Nobel per la Letteratura
Foto dal web

Una prosa aulica che, d’altronde, è tipica di Kawabata, e che lo ha portato, con questo romanzo – insieme a Mille Gru (1952) e Il paese delle nevi (1947) – alla candidatura e alla vincita del Premio Nobel per la Letteratura nel 1968.

Fu il primo scrittore giapponese a ricevere il Premio Nobel per la letteratura e, recatosi a Stoccolma per l’occasione, pronunciò un discorso intitolato Utsukushii Nihon to watakushi (La bellezza del Giappone ed io), discorso che fa capire molto sull’autore e sulle sue idee, in cui vengono esaltate le tradizioni del suo paese e la bellezza di esso.

Infatti, il principale motivo per cui gli fu conferito il Premio Nobel è che nelle sue opere si percepiva un’esaltazione dei valori della cultura tradizionale, in un periodo in cui il Giappone doveva scrollarsi di dosso la “reputazione” di un paese bellico e violento -risultato del suo atteggiamento durante la Seconda Guerra Mondiale – mettendo in risalto, quindi, una cultura pacifica e meno problematica.

Interessante è anche il fatto che Kawabata abbia scritto il romanzo quasi interamente nel dialetto di Kyōto, cosa che sicuramente ha contribuito, in lingua originale, al fascino che esso esercita, e a un tentativo di dimostrare che, in fondo, il processo di modernizzazione non è riuscito a intaccare alcuni aspetti della tradizione.

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