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Il padiglione d’oro: Yukio Mishima fra verità e finzione

L’ispirazione

Era il 1950 quando un giovane novizio, deforme e balbuziente, dà fuoco a uno dei templi più famosi del Giappone: il Kinkaku-ji di Kyōto. Ed è questo il fatto che ispirò l’autore Yukio Mishima (1925-1970) a scrivere una delle sue opere più rappresentative, Il Padiglione d’oro (1956).

Qualche accenno sulla trama

Mizoguchi, fin da bambino vittima di bullismo e preso in giro a causa della sua balbuzie, proviene da una famiglia di orgini umili, e la madre, in seguito alla morte del padre, ambisce all’acquisizione da parte del figlio di quel tempio: ambizione che richiede un forte impegno insieme al favore dell’abate che ne è a capo.

Il Kinkaku-ji, di cui suo padre ha sempre esaltato l’immensa bellezza, inizialmente non provoca in lui la stessa reazione lasciandolo, anzi, deluso. È solo in seguito che la grandezza e l’imponenza del tempio cominciano a crescere in lui fino a diventare una vera e propria ossessione, portandolo a un profondo desiderio di distruzione di quella bellezza.

Era del resto naturale che la guerra e l’inquietudine, le stragi e il sangue copiosamente versato arricchissero la sua bellezza. Perché quel tempio era sorto dall’inquietudine, costruito da vari personaggi dal cuore torbido, e, soprattutto, da un generale.

Si ritrova a desiderare la distruzione del tempio durante la guerra, durante tifoni e tempeste, ma quella bellezza sembra non voler scomparire.

Bellezza da distruggere

Il suo carattere inquieto e il suo desiderio di distruzione non fanno che accrescere. Avrebbe potuto rinunciare a tutto questo, avrebbe potuto scegliere di vivere come lo studente Kashiwagi, sempre in cerca di donne e oppiacei per affrontare la vita, ma ogni volta che prova a seguire le sue orme, ecco che l’ossessiva bellezza del padiglione d’oro torna davanti ai suoi occhi, impedendogli di agire.

È proprio la bellezza eterna che irrimediabilmente compromette ed avvelena la nostra esistenza.

Quando conosce Uiko, una giovane donna impiegata nell’ospedale della marina, lo troviamo ancora una volta catturato dal fascino della bellezza: infatuazione che non scemerà mai, nonostante il tragico destino della donna, e che sarà anch’essa motivo della sua disperazione e angoscia.

Il tentativo di fuga e la ricerca di solitudine non andranno a buon fine e lo riporteranno di nuovo lì, al tempio, dove, prima di giungere alla conclusione che l’unico modo di liberarsi di quell’irrequietezza sia di incendiare il tempio, arriva a desiderare di uccidere l’abate, anch’egli presentato come un personaggio intriso di malvagità, date le sue frequentazioni segrete con le geisha.

La decisione di dar fuoco al padiglione d’oro arriva in Mizoguchi come una sorta di epifania, una rivelazione che gli permette finalmente di capire come liberarsi della sua ossessione per la bellezza.

Romanzo filosofico

Il padiglione d’oro è infatti un romanzo filosofico oltre che psicologico e biografico, basti pensare alle ripetute citazioni del sermone zen “Nansen uccide il gatto”, sul conflitto fra l’Io interiore ed esteriore, o il filosofeggiare di Kashiwagi su come vivere la vita.

L’ossessione di Mizoguchi per la bellezza corrisponde a quella dell’autore stesso, creando un mix fra verità e finzione che riesce a non deludere il lettore: la tecnica usata da Mishima è quella di rimanere fedele ai fatti pur dandone una propria interpretazione, utilizzando la propria concezione del bello e del suo destino per aiutarci a comprendere un fatto realmente accaduto, ovvero l’atto compiuto dal novizio nel 1950.

La scrittura

La narrazione è in buona parte focalizzata sui pensieri di Mizoguchi, che riusciamo a conoscere, compatire, comprendere a pieno. La scrittura è ricca, aulica ed evocativa, e contribuisce anch’essa alla creazione di un’opera coinvolgente e unica.

Yukio Mishima, d’altronde, pur non rinnegando gli effetti che l’occidentalizzazione del paese stavano avendo sulla letteratura, rimane fedele a una scrittura tipicamente giapponese: kyūjitai (ovvero i kanji non semplificati provenienti dal cinese), arcaismi, metafore e allegorie.

Mishima, il militarismo e la critica

Egli proveniva da una famiglia di samurai, ed è questo che lo porta a una costante celebrazione di quell’epoca, al suo profondo attaccamento ai classici e alla lingua giapponese antica.

Fu un personaggio molto discusso e da molti criticato per le sue tendenze nazionalistiche, a causa delle posizioni prese nei confronti del militarismo nel dopoguerra: Mishima sosteneva infatti l’esaltazione dello spirito nazionale giapponese e quindi della figura dell’Imperatore, che aveva perso ormai la propria autorità, e, soprattutto, reclamava la presenza dell’esercito – abolito con la Costituzione del 1946 -, fondando anche un’associazione paramilitaristica (Associazione degli scudi, Tate no kai, 1968).

Il suo stesso suicidio, il seppuku – rituale praticato dai samurai attraverso un taglio al ventre e la successiva decapitazione da parte di un fidato collega -, preceduto da un discorso in cui proclamava i suoi ideali patriottici di fronte a un migliaio di persone, lo ha reso conosciuto non solo in Giappone ma nel mondo, rendendo nota con esso la sua immensa nostalgia per il passato del suo paese.

Titolo: Il padiglione d’oro
Edizione: Universale Economica Feltrinelli
Lunghezza: 250 pagg.
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Fonti consultate
  • Keene Donald, Dawn to the West, Japanese Literature of the Modern Era, Henry Holt And Company, New York, 1984.
  • Wikipedia: Yukio Mishima.